domenica 19 aprile 2009

19 aprile 1989


Consentitemi un ricordo personale: l'ultima notte di naja, vent'anni fa...

Il CAR: Merano, Caserma Rossi


Non potevamo dormire quella notte. Aspettavamo ansiosi che venisse l’alba: il nuovo sole avrebbe portato la libertà, una svolta nelle nostre vite dopo un anno trascorso lontano da casa. Ero arrivato il giorno prima alla caserma “Leone Bosin”, ritornatovi dopo nove mesi alla “Battisti”, distante meno di un chilometro, dove ero stato aggregato per prestare servizio come scritturale alla Delegazione Presidiaria. Non avevo un posto dove dormire, ma i compagni della mia vecchia camerata mi riservarono la branda di Grandi, che si congedava quel giorno. Anzi, fu lo stesso Grandi a cedermi il suo posto, io mi limitai a rifornirmi di lenzuola, cuscino e coperta al magazzino.

Quel giorno avevamo riconsegnato tutto: le divise, lo zaino, gli anfibi: eravamo dei civili in caserma, i “fantasmi”, come si definivano i congedanti, quelli che c’erano ma non si vedevano. Subito dopo pranzo qualcuno entrò in camerata sventolando una manciata di permessi: il comandante ci concedeva la libera uscita. Eravamo in panciolle sulle brande rifatte, sdraiati sulla rete, appoggiati al “cubo” come a un enorme cuscino di divano, con i nostri jeans e i nostri maglioncini. Prendemmo i giubbini ed uscimmo nel sole di Merano. Percorremmo la Marlingerstrasse soffermandoci a guardare gli enormi macchinari che piantavano dei giganteschi tronchi nel greto del Passirio, sostammo sulle panchine davanti alla Chiesa Evangelica, raggiungemmo il centro e ci fermammo in una gelateria di Corso della Libertà. Attaccammo il lucchetto dello zaino alla ringhiera verde del Ponte del Teatro, seguendo un’antica tradizione.

Vagabondammo a lungo, quasi volessimo salutare i luoghi. Parlammo di quello che era accaduto, ricordavamo e progettavamo il futuro. Cenammo al Gasthof Rainer, sotto i Portici, poi abbandonai la compagnia per un appuntamento con gli amici della Battisti, gli amici di tutti i giorni, che mi aspettavano alla Gelateria Rosy, ritrovo abituale di tutte le sere: c’erano Danilo Rossi e Fabrizio Ferrario, Donato Bettoni, Carlo Perego, Roberto Cantoni. Offrii loro una coppa, la signora Rosy volle offrire la mia. Ero felice perché tornavo a casa, ma dispiaciuto di perdere gli amici. Ci salutammo e rientrai in caserma. Cominciava “la notte”. Non potevamo dormire. L’adrenalina, l’ansia, l’angoscia consentivano solo brevi sonni intermittenti. E parlavamo, sottovoce.

Finalmente dalla grande finestra della camerata, che dava sul giardinetto interno, a Oriente, entrò la prima luce. «È finita! È finita!» si sentiva gridare, «Finita! Finita!» replicavano altre voci, «È finita!» gridai anch’io entusiasta. Ci lavammo e ci vestimmo, c’era da aspettare le dieci, l’incontro con il comandante.

Facemmo colazione, pensando che per l’ultima volta avremmo avuto quella scodella di metallo, quei biscotti secchi confezionati in cubi di stagnola, quel succo di frutta da stappare con il manico della forchetta. E poi fu l’adunata, l’ultima. Noi, vestiti in borghese, con il cappello alpino in testa, sull’attenti mentre suonava l’inno, mentre la bandiera era issata sul pennone. «Rompete le righe!», l’ultimo comando. Quindi in camerata a prendere materasso e lenzuola per riconsegnarle in magazzino. «È finita!»

Il comandante ci aspettava per le dieci nel salone ricreativo, o meglio noi aspettammo lui e il maggiore Cornacchione. Vennero con i congedi, ed uno per uno firmammo e fummo salutati calorosamente. Il colonnello Dupadi, temutissimo, si rivelò cordiale - anche con me, che conosceva poco, essendo io rimasto alla “Leone Bosin” per soli quaranta giorni, comprendendo i dieci del campo estivo a Ponte di Legno. Il maggiore Cornacchione ci tenne un discorsetto sul futuro, su quello che ci aspettava fuori di lì, su quello che ci si aspettava da noi, e ci consigliò di iscriverci all’Associazione Nazionale Alpini.

Fummo liberi di andare con il nostro foglio arrotolato in mano. Corremmo in camerata a prendere le nostre borse e uscimmo con il cappello alpino in testa dal passo carraio un’ultima volta, guardando indietro le sentinelle che rimanevano al loro posto, i camion che viaggiavano per i viali della caserma, la corvée che ramazzava i marciapiedi, la vita che continuava immutabile in quel piccolo mondo. Il fiume gorgogliava oltre Marlingerstrasse, il sole scintillava. Erano da poco passate le dieci. Ed era «Finita!».


Merano, Delegazione Presidiaria




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LA FRASE DEL GIORNO
Si può essere felici della propria libertà perché quando diventa pericolosa si trova rifugio nei doveri.
ERNEST HEMINGWAY, Vero all'alba

7 commenti:

GraficWorld ha detto...

Un saluto ed una buona domenica.Dual...

DR ha detto...

Ricambio il saluto. Ormai non mi resta che augurarti una buona settimana.

Asia ha detto...

Grazie di questo revival. Franca

DR ha detto...

Sono esperienze che restano dentro, che segnano...

Anonimo ha detto...

bella quest'atmosfera 'collegiale' - e la tua penna, come sempre, ce l'ha resa vivissima

Luciana -comoinpoesia

DR ha detto...

Il cameratismo è di quel tipo, anche se non ho frequentato collegi da convittore: si diventa più che amici, fratelli per la vita, anche se poi ci si rivedrà magari molto raramente.

Unknown ha detto...

Dupadi e Cornacchione che 2 personaggi me li ricordo bene un bellissimo anno e poi avevo vent'anni