sabato 31 dicembre 2011

Fine d’anno


JORGE LUIS BORGES

FINE D’ANNO

Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.

(da Fervore di Buenos Aires, 1923)

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Il tempo con i suoi paradossi è uno dei temi fondamentali del grande scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986): “Noi abbiamo sognato il mondo. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto” scrisse. E ancora: “In un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d'ogni bontà, ma anche di ogni tradimento, per le sue infamie del passato e del futuro.[...] Visti in tal modo tutti i nostri atti sono giusti, ma sono anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali. Omero compose l'Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, è impossibile non comporre, almeno una volta, l'Odissea”. Pensieri da fine d’anno, quando ci si rende conto che in effetti il fiume del tempo scorre e non è il mutamento di data a modificarlo – un due che sostituisce un uno in questo caso. Domani è un altro giorno molto simile a questo, con la sua alba e il suo tramonto e tante cose in mezzo, e non è certo il fatto che nella data ci sia 2012 a farne un evento speciale, con buona pace dei Maya…

PS. Nonostante Borges e il suo cinismo, auguro un Buon anno a tutti voi, amici del Canto delle Sirene. Che il 2012 possa avverare i vostri desideri!

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E, per curiosità, qualche statistica sul blog per quanto riguarda il 2011

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LE CINQUE PRINCIPALI CHIAVI DI RICERCA:

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Poesie per settembre
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I vasi greci
Una poesia di Picasso

I CINQUE POST DEL 2011 PIÙ LETTI

Tu Danae, io Zeus
Lei
Nuove poesie per febbraio
Sei haiku di primavera
Il rondone raccolto sul marciapiede

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LA FRASE DEL GIORNO
Il tempo degli uomini è eternità ripiegata.
JEAN COCTEAU, Il mio primo viaggio




Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986), scrittore, poeta, saggista, traduttore e accademico argentino. Creatore di un genere oggi designato “borgesiano”, a definire una concezione della vita come storia, come finzione, come opera contraffatta spacciata per veritiera, come fantasia o come reinvenzione della realtà.



venerdì 30 dicembre 2011

Cose leggere

 

ANTONIA POZZI

DESIDERIO DI COSE LEGGERE

Desiderio di cose leggere
Giuncheto lieve biondo
come un campo di spighe
presso il lago celeste

e le case di un'isola lontana
color di vela
pronte a salpare –

Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –

Ma giungerà una sera
a queste rive
l'anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l'acqua o l'aria
salperà – con le case
dell'isola lontana,
per un'alta scogliera
di stelle –

1° febbraio 1934

(da Parole, 1938)

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Capita di sentirsi addosso il peso della vita: come una pietra in una barca, dice Antonia Pozzi. Come un sasso nel cuore. E allora si è attirati dalla leggerezza – l’ondeggiare dei giunchi nel canneto sulla riva di un lago, il vento che li accarezza, le vele tese che si muovono sull’acqua limpida. Leggere come piume. Quello è il sogno della poetessa lombarda, anzi, la speranza: trovare finalmente libertà nella leggerezza. Antonia Pozzi, come sappiamo, non la trovò in vita. Forse, il giorno di dicembre in cui si distese ad attendere che i barbiturici facessero effetto, la intravide come una nuvola che passava nel cielo freddo sopra l’Abbazia di Morimondo.

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

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LA FRASE DEL GIORNO
Parmenide rispose: il leggero è il positivo, il pesante è negativo. Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa era certa: l'opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.
MILAN KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere




Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – 3 dicembre 1938), poetessa italiana. Laureatasi in Filologia con una tesi su Flaubert, si tolse la vita dopo una contrastata storia d’amore. Il suo diario poetico Parole fu pubblicato postumo, nel 1939: composto a partire dai diciassette anni, riflette un'amara e inquieta sensibilità in cui si avverte l'influsso della lirica di Rilke.


giovedì 29 dicembre 2011

In un solo punto


TOMI KONTIO

DOVUNQUE VAI, NON SCOMPARI

Dovunque vai, non scompari,
il sole non è più lontano del mandarino dimenticato sul tavolo,
o della penna che si aggrappa al tuo nome
                  si sposta dal suo piedistallo.
Sono ritornato bambino,
ho lasciato cadere la mia cecità come un fazzoletto dalla finestra
e ho visto che non cade,
che l’universo non si espande,
che tra le stelle non c’è distanza,
che i vivi non sono più vicini dei morti,
che la Terra non è rotonda
                   e che tutto si concentra
in un solo punto: dove il carbone si trasforma
in diamante, il dolore in parola.

..

Un’altra lirica di Tomi Kontio, autore finlandese che abbiamo incontrato due settimane fa. Qui  è l’energia dell’universo a diventare protagonista e a estrinsecarsi nell’emozione dell’uomo, nella sofferenza stessa che diventa poesia annullando il tempo e lo spazio: “Non mi ricordo più di te, non ti conosco / ma ti conoscono le lettere / e quell’universo nel quale sei stata scritta / quell’ombra,  quella fodera nel mantello del poeta” come scrive Kontio.

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JONATHAN KOCH, “MANDARIN, WINE GLASS, WALNUTS”

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LA FRASE DEL GIORNO
Guariamo dalla sofferenza solo provandola appieno
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MARCEL PROUST




Tomi Kalevi Kontio (Helsinki, 16 febbraio 1966), scrittore, giornalista e poeta finlandese. La sua produzione comprende poesie, testi di canzoni, prosa e libri per ragazzi. Ha lavorato anche come editorialista e assistente alla rivista Nuori Voima e ha fondato la rivista Kirjailija.


mercoledì 28 dicembre 2011

Il fascino dei ricordi lontani

 

JORGE TEILLER

AVEVO DIMENTICATO

Avevo dimenticato:
Una scampanellata = passeggeri da nord.
Due scampanellate = passeggeri da sud.
Tre = un merci da nord.
Quattro = un merci da sud.
Questo appresi una volta
in un posto il cui nome non importa
dove ora nessuna campana
annuncia nessun treno.

 

C’è il fascino dei ricordi lontani, perduti e ritrovati in questa breve poesia del cileno Jorge Teiller. Una stazione sperduta nella regione dell’Araucania, dove per segnalare il passaggio dei treni c’è un semplice sistema di campanelle. Tanto tempo fa, nella sua infanzia, il poeta ha appreso questo codice, e ora, riemerso dai meandri della memoria, ecco che torna con meraviglia, con nostalgia. È uno dei temi classici di Teillier, fondatore della poesia larica, che abbiamo già visto rimpiangere il passato come età dell’oro. Qui, nel ricordo riaffiorato, c’è un’operazione di tipo proustiano: è il tempo perduto a ripresentarsi, non evocato, apparendo per qualche misteriosa connessione, come in Proust dal sapore di un biscotto inzuppato nel tè.

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FOTOGRAFIA © MIKE CROWE

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LA FRASE DEL GIORNO
I ricordi sono voli brevi, barbaglianti: ma il pipistrello che hai abbattuto è la realtà.
GIORGIO SAVIANE, L’inquisito




Jorge Teillier Sandoval (Lautaro, 24 giugno 1935 - Viña del Mar, 22 aprile 1996), poeta cileno della “Generazione letteraria dei ‘50”, creatore della “poesia larica”. Per lui l’importante in poesia non è l’estetica, ma la creazione del mito e di uno spazio di tempo che trascende il quotidiano.


martedì 27 dicembre 2011

Una vecchia fotografia


RAFAEL ADOLFO TÉLLEZ

QUESTI ESSERI DIVERSI

Una donna e un uomo
che si guardano sul finire del 1957,
e sulla soglia di una casa con la luna
si chiedono come sarà il mio volto.
Qualcuno che sorprende
nel fiore freddo dell’arancio il suo destino.
Che non è nato.
Che  ignora ogni cosa.
Che attraversa la piazza di notte
e nella pioggia incontra
il volto dei suoi genitori.
Che ha conosciuto una vigna,
un cortile, un pozzo
che sono ancora nel grembo.
Che ha amato una via.
Che ha amato una donna
come se stesso.
Che è solo.
Che sta scrivendo questi versi.
Sono questi esseri diversi
e se ne sono andati.

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Una vecchia fotografia che ritrae un uomo e una donna incinta. Sono i genitori del poeta e si interrogano su come sarà il figlio, da chi dei due prenderà, a chi somiglierà e in cosa. Un giorno d’inverno, freddo: quel bambino che deve nascere è come un fiore in boccio. Rafael Adolfo Téllez, poeta spagnolo, letterato e filologo, nascerà il 29 dicembre 1957 a Palma del Río: in quella fotografia, ritrovata a distanza di tanti anni, legge la sua vita – ora che quel fiore è diventato un’arancia – e disegna con i suoi versi l’autoritratto di ciò che è diventato, somma di tutti i suoi ieri, dall’infanzia trascorsa nella casa dei nonni a Cañada Rosal al grande amore, dalla solitudine alla poesia.

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FOTOGRAFIA © HANCIOGLU

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LA FRASE DEL GIORNO
Ho imparato che chi viaggia / ha bisogno solo / di ombra, muschio e un po’ di luce che guidi i suoi passi.
RAFAEL ADOLFO TÉLLEZ




Rafael Adolfo Téllez  (Palma del Río, 29 dicembre 1957), poeta e scrittore spagnolo. Insegnante di scuola superiore a Cañada Rosal, nei suoi testi rivendica la campagna come luogo di creazione, contemplazione e memoria, in fuga dalla città e dal trambusto per sedersi e guardare, respirare, sentire come passa il tempo.



lunedì 26 dicembre 2011

Santo Stefano

 

LEONARDO SINISGALLI

SANTO STEFANO 1938

Stasera s'indovina al chiaro delle nevi
Che il giorno avanza con passi di gallo.
Dalla mia stanza erta
Guardo il ballo delle ombre nel solstizio.
C'è nell'aria un indizio
Di vita nuova, una speranza certa.
Forse è il cuore che smania
In questa bianca squilla remota
O il vento che si stana.
Tra lo stridore delle pale il giorno
Vuoto è scacciato, un anno s'allontana.
La luna tardi splenderà sul selciato.

(da Vidi le Muse, Mondadori, 1943)

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Santo Stefano. Sta passando ormai l’euforia del Natale, ci si avvicina stancamente alla fine dell’anno con la sensazione di giorni sospesi in cui ormai si trae il bilancio dell’anno trascorso e si chiedono cose al nuovo, cercando di ingraziarselo con propositi di cambiamento. Leonardo Sinisgalli a questo pensa nella sera del 26 dicembre 1938, periodo terribile storicamente, con le dittature inasprite e non ancora cadute nella guerra. L’anno dunque se ne sta andando, ma nei giorni che dopo il solstizio si allungano impercettibilmente – “a passo di gallo” dice il proverbio – il poeta scorge il barlume della speranza, la primavera attesa non è più così lontana…

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GIOVANNI FATTORI, “TRAMONTO SUL MARE”

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LA FRASE DEL GIORNO
Ecco a cosa serve il futuro: a costruire il presente con veri progetti di vita.
MURIEL BARBERY, L’eleganza del riccio




Leonardo Sinisgalli (Montemurro, 9 marzo 1908 – Roma, 31 gennaio 1981), poeta,  saggista e critico d'arte italiano. Noto come Il poeta ingegnere per il fatto che lavorò per Olivetti e Pirelli e per aver fatto convivere nelle sue opere cultura umanistica e cultura scientifica. Fondò e diresse la rivista “Civiltà delle macchine”.


domenica 25 dicembre 2011

Natale 2011


ANDREA ZANZOTTO

DINTORNI NATALIZI

Natale, bambino   o ragnetto   o pennino
che fa radure limpide dovunque
e scompare e scomparendo appare
come candore e blu
delle pieghe montane
in soprassalti e lentezze
in fini turbamenti e più
Bambino   e vuoto   e campanelle e tivù
nel paesetto. Alle cinque della sera
la colonnina del meteo della farmacia
scende verso lo zero, in agonia.
Ma galleggia sul buio
con sue ciprie di specchi.
Natale mordicchia gli orecchi
glissa ad affilare altre altre radure.
Lascia le luminarie
a darsi arie
sulla piazza abbandonata
col suo presepio di agenzie bancarie.
Natali così lontani
da bloccarci occhi e mani
come dentro fatate inesistenze
dateci ancora di succhiare
degli infantili geli le nobliate essenze.

(da Sovrimpressioni, Mondadori, 2001)

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Per augurare a tutti i lettori del Canto delle Sirene un Buon Natale ho scelto – e come si poteva fare diversamente? – una poesia. È di Andrea Zanzotto, il poeta veneto scomparso a novant’anni il 18 ottobre scorso. Sono versi che confrontano il Natale dei nostri giorni con quelli della memoria, non ancora fagocitati dalla televisione, dalla modernità che riempie i nostri paesi e le nostre città di agenzie bancarie e le svuota dei piccoli negozi di alimentari. Ecco, oggi, anche solo un attimo, proviamo a pensare con la nostalgia buona ai Natali della nostra infanzia, quando ci alzavamo euforici e correvamo a guardare sotto l’albero o comunque in salotto i regali misteriosamente arrivati nella notte. Riscoprire quella gioia non può certo che farci bene, e magari mordicchiando un torrone alla fine del pranzo sorrideremo ignari per quel sapore ritrovato.

Buon Natale, amiche e amici miei! Di cuore…

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IMMAGINE © COMPUTER WALLPAPER

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LA FRASE DEL GIORNO
Onorerò il Natale nel mio cuore e cercherò di farlo tutto l’anno.
CHARLES DICKENS, Canto di Natale




Zanzotto_AndreaAndrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011), poeta italiano tra i più importanti del secondo Novecento. La sua poesia, che scava profondamente nella materia linguistica, è legata alle tracce e alle memorie del suo paese natio: "Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio”.


sabato 24 dicembre 2011

Il Natale del miracolo

 

JUAN RAMÓN JIMÉNEZ

C’ERA

L’agnello belava dolcemente.
L’asino, tenero, si allietava
in un caldo chiamare.
Il cane latrava
quasi parlando alle stelle.
Mi svegliai… Uscii. Vidi orme
celesti sul terreno
fiorito
come un cielo capovolto.
Un soffio tiepido e soave
velava l’alberata:
la luna andava declinando
in un occaso d’oro e di seta
apersi la stalla per vedere se Egli
era là…
C’era…

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La magia della notte di Natale, il suo fascino palpabile la sera della Vigilia, quando ci si trova ad osservare le stelle e a pensare al mistero dell’universo, quando nel tepore della casa si riesce finalmente a sentire anche il calore della famiglia. Non è una notte come tutte le altre: ogni anno ce ne rendiamo conto. Anche il Premio Nobel spagnolo Juan Ramón Jiménez resta ammaliato da questa atmosfera, esce dal sogno in cui è immerso, come attratto da quelle voci animali – l’agnello, l’asino, il cane – destate da qualcosa di soprannaturale, e si trova di fronte lo spettacolo della notte, il tramonto lunare che dipinge il cielo come fosse seta. Nella stalla, come duemila anni fa, si ripete il miracolo…

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GHERARDO DELLE NOTTI, “ADORAZIONE DEI PASTORI”

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LA FRASE DEL GIORNO
La vigilia di Natale era una notte di canti che si avvolgevano intorno a te come uno scialle. Ma ancora più caldo era il tuo corpo, riempiva il tuo cuore di una melodia che sarebbe durata per sempre.
BESS STREETER ALDRICH, Song of Years




JimenezJuan Ramón Jiménez (Palos de Moguer, 24 dicembre 1881 - San Juan, Portorico, 29 maggio 1958), poeta spagnolo premiato con il Nobel nel 1956, fu uno dei principali esponenti della Generazione del ’14 e del Modernismo. La sua ricerca poetica lo portò a privilegiare la poesia nuda ed essenziale, fatta solo di immagine e di parola al di là della musicalità esteriore.


venerdì 23 dicembre 2011

Il Natale dell’arricchito


GUIDO GOZZANO

IL NATALE DI FORTUNATO


DEAN MORRISSEY, “SCROOGE OUTSIDE HIS LONDON BUSINESS”


Oggi che l’ala della pace cristiana sembra sfiorare la terra, la mia fantasia stanca non ama raccontarvi vicende di orchi e di fate, di gnomi e di malefizi. Evocherò per voi una fiaba non mia, una leggenda che ascoltavo dalla cara bocca d’una fantesca defunta, in altri Natali lontani, quando ero piccolo come voi, miei piccoli amici.

La buona vecchia raccontava ed io fissavo attraverso i vetri il cielo bigio e la città invernale e la mia fantasia s’attendeva di veder rosseggiare la tunica di Gesù fra le rotaie dei tramvai, sotto il bagliore delle lampade elettriche... Quando Gesù veramente compariva su questa terra e lasciava la tunica per travestirsi e confondere i peccatori e confortare gli oppressi, viveva in un paese lontano un contadino rimasto vedovo con molti figli troppo piccoli ancora per guadagnarsi la vita.

Era la vigilia di Natale e Fortunato – così si chiamava il pover’uomo – stava sulla porta di casa, pensoso ed inquieto. Non aveva danaro, non aveva lavoro, né sapeva come sfamare le sue creature. Udiva a tratto, dall’interno della casa, lo strillare dei bimbi e si chiudeva gli orecchi e chinava il capo sulle ginocchia, col cuore spezzato.

– A che meditate, buon uomo? Perché siete così triste?

Fortunato alzò il viso sussultando e vide uno sconosciuto dinnanzi a sé.

– Signore, se sono triste, non è senza ragione; i miei bimbi hanno fame; e non c’è in casa un tozzo di pane, non ho lavoro e non so come fare!

– Se voi voleste lavorare per me, vi pagherei lautamente.

– Non domando di meglio, signore!

– Sta bene. Andate domattina a falciare l’erica sulla brughiera e al tramonto verrò a pagarvi.

– Voi dimenticate che domani è Natale, il giorno più santo dell’anno. Comincierò dopo, con tutto lo zelo.

– Allora non c’intendiamo... Comincio a dubitare che siate un simulatore e che non abbiate quel gran bisogno che dite.

– M’è testimonio Iddio che muoio di fame!

– Fate allora ciò che vi dico.

In quell’istante Fortunato intese i gemiti dei bimbi che dall’interno della casa imploravano disperati.

– Sia! Farò come voi volete, per amore dei miei figli.

E Dio, che vede, perdonerà!

– Sta bene. Trovatevi domani sulla brughiera e al tramonto sarò a pagarvi.

E lo sconosciuto disparve.

L’indomani Fortunato s’alzò di buon mattino, fece le sue preghiere come di costume, intinse le dita nell’acqua benedetta, si segnò con un lento segno di croce, esitò ancora incerto, poi si decise, prese la falce e andò sulla brughiera. Ed eccolo a tagliare l’erica secca.

Lavorò tutto il giorno, mentre dal villaggio veniva sul vento, or sì or no, l’armonia osannante delle campane.

– Dio che vede mi perdonerà...

E proseguiva il lavoro e accumulava fasci su fasci, pregando sommessamente.

Era un Natale senza neve, gelido e sereno. Il sole declinava all’orizzonte in un cielo acceso e Fortunato depose la falce, si sedette stanco sopra una pietra, in attesa.

Ma lo sconosciuto non giungeva.

Fortunato cominciava ad inquietarsi, quando intese un crepitio e vide nell’ombra del crepuscolo un vivo bagliore; si volse, balzò in piedi e vide che i fasci dell’erica divampavano crepitando. S’adoperò invano per domare le fiamme; in pochi secondi l’arido sterpame era in cenere.

– Oh! misero me! Ho faticato tutto il giorno a stomaco digiuno, ho profanato un giorno santo, ed eccomi a mani vuote, più miserabile di prima.

– Non desolarti, buon uomo! Non desolarti così!

Fortunato si volse e vide nell’ombra un altro sconosciuto che lo fissava dolcemente.

Ed egli gli raccontò la sua disavventura.

– Ho avuto torto, lo riconosco; ma i miei figli morivano di fame... Ma più della fame, più della vana fatica, mi duole d’aver profanato questo giorno solenne...

Lo sconosciuto gli prese una mano, lo fissò a lungo, gli disse con voce soave:

– Ebbene, datevi pace. Vi pagherò io la giornata e assai più lautamente. Andate a casa e troverete il compenso. Ma adoperate pel meglio la vostra fortuna; né la casa vostra, né la vostra borsa si chiudano mai dinnanzi alla sventura...

E lo sconosciuto disparve.

Fortunato pensò d’aver male inteso, tanto la promessa era bella, e ritornò verso casa con ansia frettolosa. Giunto in vista dell’abitazione, s’arrestò sbigottito, soffregandosi gli occhi, palpandosi, credendo di sognare.

La misera capanna non c’era più, ma traspariva fra gli alberi una bella casa, dalle finestre luminose nella notte serena. Sulla porta l’attendevano i suoi figli festanti. Lo presero per mano, lo condussero in una sala dov’era imbandita una sontuosa mensa natalizia.

Ad una parete, sul damasco azzurro, erano intrecciati la zappa, il bidente, i suoi attrezzi di contadino con in mezzo la croce di legno della preghiera consueta.

Fortunato piegò le ginocchia dinnanzi a quel trofeo in muta adorazione verso il prodigio divino.

Da quel giorno Fortunato cambiò vita. Acquistò i campi dei vicini, ingrandì i suoi dominii a perdita di vista.

Tutti erano sbigottiti da tanta prosperità e tenevano per certo che Fortunato avesse scoperto un tesoro favoloso.

Egli mantenne la promessa data al benefattore sconosciuto. Nessuna miseria sostava alla sua porta senza essere confortata di parola e di danaro.

Ma col tempo il suo carattere andò mutando; come arriva sovente, la ricchezza gl’indurì il cuore; a poco a poco si dimenticò del suo passato, si circondò di adulatori e di potenti, divenne fantastico, orgoglioso, arrogante.

Un giorno – era il Natale e compiva l’anno dell’incontro miracoloso – egli dava un pranzo di gala e aveva convitato tutti i ricchi e i nobili del paese.

Dalla sala di damasco azzurro era stato tolto il trofeo della croce e delle zappe e confinato nel solaio, come un ricordo vergognoso.

Fortunato aveva ordinato ai servi di non lasciare entrare nessun mendicante nel cortile del castello. Due valletti armati di bastone vigilavano l’ingresso per impedire il passo a chiunque non fosse invitato. Tuttavia, all’ora di sedere a mensa, arrivò nel cortile, non si seppe come, un vecchio mendicante. I servi gli furono sopra respingendolo e malmenandolo.

– Come sei qui, mascalzone? Via! Via! Esci all’istante! – E lo minacciarono coi bastoni alzati.

– Soccorrete un miserabile, in nome di Dio, – disse il poveretto con voce supplicante.

– Oggi no. Ritorna domani.

Ma quegli insisteva e alzava la voce per essere udito dai convitati.

Fortunato intese, s’affacciò alle vetrate, furibondo, perché quei gemiti freddavano l’allegria degli amici.

– V’avevo detto di vietare il passo a quegl’intrusi! Scacciate quel miserabile e se resiste sciogliete i cani.

Furono sciolti i molossi, ma questi lambivano le mani del mendicante, che s’allontanò lentamente scuotendo il capo.

Fortunato ritornò fra i commensali, riprese a bere, a ridere, a celiare.

Poco dopo entrò nel cortile, con gran fragore, una carrozza magnifica tirata da quattro superbi cavalli. E nella carrozza stava un principe, coperto d’oro e di gemme. I servi corsero ad avvertire il signore e tutti s’alzarono da tavola, si protesero alle finestre, guardando curiosi nel cortile.

Fortunato s’avanzò verso la carrozza, col cappello in mano, inchinando fino a terra lo sconosciuto; lo pregò di fargli l’onore di discendere e d’entrare nella casa.

– Grazie, – rispose il forestiero, – non discenderò, e non entrerò in casa vostra. Già son venuto poco fa come mendicante e voi mi avete fatto cacciare dai cani. Vengo ora con l’abito e l’equipaggio d’un signore e v’inchinate fino a terra... Accompagnatemi prima in un luogo non lungi di qui, dove parleremo delle cose nostre...

E il principe accompagnò Fortunato nella brughiera dove aveva falciato l’erica il Natale prima.

– Fortunato, Fortunato! Avete dimenticato così bene il nostro colloquio d’or è l’anno? Un anno di ricchezza e di prosperità è stato sufficiente per fare dell’uomo pio un miserabile orgoglioso! La ricchezza improvvisa v’ha inaridito il cuore: che la povertà ve lo rifaccia pietoso e cristiano!

Lo sconosciuto disparve e Fortunato ritornò di corsa al castello.

Ma il castello non c’era più.

Nevicava, nevicava, nel triste crepuscolo di dicembre; fra i tronchi e i rami Fortunato intravide la sua capanna di prima, illuminata dalla triste lucerna ad olio, intese le grida dei bimbi affamati. Castello, servi, oro, mensa, commensali, tutto era scomparso come in un sogno.

Fortunato sentì ripalpitare in cuore una tenerezza pietosa e riprese la via della salvezza e della povertà...

Questo accadeva quando Gesù compariva sulla terra in misteriosi sembianti e visitava le campagne e sostava alle soglie per ammonire gli uomini.

(da Fiabe e novelline, 1914)

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Il Natale è il pretesto che Guido Gozzano (Torino, 1883-1816) prende a prestito per raccontare uno dei vizi umani, quell’ingratitudine che acceca e fa dimenticare da dove si è partiti prima di arrivare agli onori. Capita spesso che i parvenu disdegnino quelli che un tempo erano i loro simili. Così è di Fortunato, il protagonista di questa favoletta che Gozzano indirizza ai “piccoli amici”: da povero a ricco all’’improvviso, riesce a far fruttare la sua intelligenza contadina perdendo però il suo lato umano, arrivando – dopo solo un anno – a scacciare dalla sua sontuosa dimora un povero come era stato lui fino al Natale precedente. E l’accoglienza riservata al principe è un altro aspetto negativo: la servilità verso i potenti, ritenendo di potere in tal modo entrare a far parte della loro cerchia. Il contrappasso finale è il ritorno alla povertà per riportare allo stato iniziale quel cuore buono che la ricchezza ha reso malvagio. Per citare un aforisma di Ludwig Börne “Fa prima la ricchezza a indurire un cuore che l’acqua bollente un uovo”. La morale della favola non può certo che farci piacere: tutti noi, leggendo in questi giorni il racconto di Gozzano, possiamo pensare alla “casta” dei politici e considerare che anche loro, come il contadino Fortunato, hanno smarrito il senso della misura e dimenticato che non è per il loro portafogli che sono stati eletti, ma per rappresentare la comunità dalla quale provengono.

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LA FRASE DEL GIORNO
Nei cuori induriti dal guadagno e dall’egoismo la sublime poesia del Natale non trova eco pietosa.
EVELYN, A veglia




Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – 9 agosto 1916),   poeta italiano, fu il capostipite della corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo. Inizialmente si dedicò alla poesia nell'emulazione di D'Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti, accomunati dall'attenzione per "le buone cose di pessimo gusto". Morì di tisi a 32 anni.


giovedì 22 dicembre 2011

Il Natale del laico

 

GIORGIO CAPRONI

DINANZI AL BAMBIN GESÙ PENSANDO AI TROPPI

INNOCENTI CHE NASCONO DERELITTI, NEL MONDO

a Valerio Volpini

    Nel gelo del disamore...
senza asinello né bue...
Quanti, con le stesse sue
fragili membra, quanti
suoi simili, in tremore,
nascono ogni giorno in questa
Terra guasta!...

    Soli
e indifesi, non basta
a salvarli il candore
del sorriso.

    La Bestia
è spietata. Spietato
l'Erode ch'è in tutti noi.

    Vedi tu, che puoi
avere ascolto. Vedi
almeno tu, in nome
del piccolo Salvatore
cui, così ardentemente, credi
d'invocare per loro
un grano di carità.

    A che mai serve il pianto
- posticcio - del poeta?

    Meno che a nulla. È soltanto
fatuo orpello. È viltà.

Dicembre 1989

(da Famiglia Cristiana, n. 51, 1989)

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Ho ritrovato in una vecchia scatola una cartelletta con fogli e ritagli da vari giornali e riviste. Tra questi ce n’era una con poesie di Natale, quelle che Famiglia Cristiana richiedeva per l’occasione a poeti più o meno famosi. Nel foglio ci sono versi di Barsacchi, Fiore, Margherita Guidacci, Turoldo e Luzi. La sesta poesia, quella che mi ha maggiormente colpito è di Giorgio Caproni, del quale tra due settimane celebreremo il centenario. Il poeta livornese, davanti al presepio, medita su altri bambini che soffrono – e  anche oggi le notizie dalla guerra del Congo e dalla carestia del Sahel non sono buone, per citare solo gli ultimi eventi e tacere dei pericoli del mondo occidentale. “Soli e indifesi” davanti a un Erode dai molti volti e tra questi purtroppo c’è anche quello della nostra indifferenza. Caproni, laico e agnostico, trova inutili persino le parole del poeta, anzi di più, vili di fronte a tutto questo male. E prova quasi nostalgia per l’amore divino che a lui manca e che invece l’amico credente ha: a lui affida la speranza della luce in questa “Terra guasta”.

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LORENZO COSTA, “NATIVITÀ”

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LA FRASE DEL GIORNO
Così attraversi i mondi / e i millenni, e natura / intera continua a gemere.
DAVID MARIA TUROLDO




Giorgio Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990), poeta, critico letterario e traduttore italiano. Partito come preermetico attirato da uno scabro espressionismo, approdò a un ermetismo rivestito di un impressionismo idillico. Nella sua poesia canta soprattutto temi ricorrenti (Genova, la madre e Livorno, il viaggio, il linguaggio), unendo raffinata perizia metrico-stilistica a immediatezza e chiarezza di sentimento.


mercoledì 21 dicembre 2011

Il Natale dei briganti


SEBASTIANO SATTA

VESPRO DI NATALE

Incappucciati, foschi, a passo lento
Tre banditi ascendevano la strada
Deserta e grigia tra la selva rada
Dei sughereti, sotto il ciel d'argento.

Non rumore di mandre o voci, il vento
Agitava per l'algida contrada.
Vasto Silenzio. In fondo, Monte Spada
Ridea bianco nel vespro sonnolento.

O vespro di Natale! Dentro il core
ai banditi piangea la nostalgia
Di te, pur senza udirne le campane:

E mesti eran, pensando al buon odore
Del porchetto e del vino, e all'allegria
Del ceppo, nelle lor case lontane.

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Sebastiano Satta (1867-1914) era un Carducci sardo: avvocato, poeta attento al realismo e al naturalismo, godette nell’isola di notevole fama anche per le sue spiccate doti umanitarie. E quelle qualità, mediate da un socialismo allora ancora nella sua fase romantica, ritroviamo anche in questa poesia di Natale. Satta ritrae il lato umano del brigantaggio: coglie il momento in cui i banditi si trovano al “lavoro” sui monti irti di querce da sughero e odono la voce del Natale, le campane che annunciano il vespro della Vigilia. Monta allora la nostalgia per ciò che è loro negato, per quelle tradizioni che invece la società civile si gode appieno. Così il pensiero va in questi tempi moderni a chi non può vivere il tempo di Natale per lavoro o lontananza, per solitudine o esclusione sociale. Con l’augurio che il suono delle campane del vespro possa essere fonte di speranza e non di ulteriore sofferenza.

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FOTOGRAFIA © MURALES IN SARDEGNA

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LA FRASE DEL GIORNO
Vi ha un giorno nell'anno in cui il vae soli [Guai a chi vive solo!]
della Bibbia ci è in viso buttato, come ingiuria, dalla rossa vampa del caminetto e ci soffia gelato alle orecchie, come minaccia, dalla terra nevata. È il Natale.
CARLO DOSSI, Goccie d’inchiostro




Sebastiano Satta noto Pipieddu (Nuoro, 21 maggio 1867 – 29 novembre 1914), poeta, scrittore, avvocato e giornalista italiano. Durante il servizio militare a Bologna ebbe modo di avvicinarsi alla poesia di Carducci dalla quale fu molto influenzato. Cultore della lingua e della cultura sarda, ha raccontato la vita sarda e quella nuorese con occhi critici.



martedì 20 dicembre 2011

Il Natale del consumismo


DINO BUZZATI

LA SAPONETTA

Tu pensavi che cosa mi regalerà
finalmente è venuto Natale
eccomi qui alla porta, e tutto
è Natale scrupolosamente
l'esatto sogno dei bambini
col gelo col grigio col vento
che fa turbinare quei cosi
di ghiaccio e di neve e le famiglie
che si chiudono come valve
tram fermi automobili poche
eccomi qui da te col regalo
io che te lo avevo promesso
ciao ciao ho avuto la forza
di arrivare fin qui se non altro.
Ma dico: quando l'avrai consumato
e resterà un fogliettino
un fagiolo un cece un nulla
e ti scivolerà fra le dita
precipitando giù nel lavandino
dico, amore, per un istante almeno
ti ricorderai di me?

(da Il capitano Pic e altre poesie, Neri Pozza, 1965)

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Un’ossessione che compare nei vari scritti d’occasione dedicati da Dino Buzzati al Natale è il fenomeno sociale della festa, inquadrata nel senso dell’attesa tipico dello scrittore bellunese: così appaiono spesso le consuetudini, la frenesia della moda del regalo. Qui, in una delle sue rare poesie, Buzzati chiede alla donna amata se, passato il Natale, e consumato il dono – una costosa saponetta in questo caso – si ricorderà ancora di lui. È un quadro che ci riporta agli Anni ‘60, al boom economico, a un tempo oramai distante, ma perfetto per capire dove siano stati seminati i germi del Natale consumistico, che ha completamente snaturato il senso spirituale della festa. Un altro aspetto che risalta dai versi è naturalmente quello umano, la difficoltà della comunicazione con l’altro, il ruolo di ognuno di noi nella società odierna e la schiavitù delle convenzioni.

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ELABORAZIONE GRAFICA © DANIELE RIVA

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LA FRASE DEL GIORNO
Ciò che di solito è un castigo, cioè il sacrificarsi per il prossimo, diventa luce, soddisfazione, beatitudine. Felici, sono leggeri come piume. Questo è il prodigio di Natale, sul quale non si scriverà mai abbastanza, tanto è bello e misterioso.
DINO BUZZATI, Corriere d’informazione, 24-25 dicembre 1954




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


lunedì 19 dicembre 2011

Cos’è l’arte? (Christmas Edition)

 

GHERARDO DELLE NOTTI

“La luce mostra la vera natura di tutto ciò che viene messo in chiaro; poi la luce trasforma ciò che essa illumina, e lo rende luminoso.” (San Paolo, Lettera agli Efesini)

Gherardo delle Notti (Gerard Van Honthorst), “Adorazione dei pastori”
olio su tela, 1622 / Colonia, Wallraf-Richartz Museum

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CARAVAGGIO

“...non esegue un solo tratto senza farlo direttamente dal modello vivo. E questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere servendosi di disegni (anche se tratti dal vero) non è così sicuro come tenersi il vero davanti e seguire la natura in tutta la varietà dei suoi colori; ma bisogna anzitutto che il pittore adotti il criterio di scegliere dal bello le cose più belle” (Karel Van Mender)

Caravaggio, “Adorazione dei pastori”
olio su tela, 1609 / Messina, Museo Regionale

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GEORGES DE LA TOUR 

“E tuttavia egli riesce sempre a stupire e sedurre con l'audacia paradossale del suo colore e con un'armonia che coordina, al di là di qualsiasi convenzione, gli elementi più disparati, per quanto severi e contraddittori.”  (Hermann Voss)

Georges de la Tour, “L’Adoration des bergeres”
olio su tela, 1644 / Parigi, Museo del Louvre

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LA FRASE DEL GIORNO
Solo nell'arte succede ancora che un uomo, consumato dai desideri, riesca a creare qualcosa che somigli al soddisfacimento e che, in virtù dell'illusione artistica, questo spasso, come fosse una cosa reale, dia luogo a conseguenze affettive. Giustamente si parla di incantesimo dell'arte e si paragona l'artista all'incantatore.
SIGMUND FREUD, Totem e tabù

domenica 18 dicembre 2011

Uva di una vite altrui


MARIO BENEDETTI

I MIEI AUTORI

Quando ho letto Juan Rulfo
sono cresciuto di quattro centimetri
leggere Machado è stato un miracolo
con Vallejo ho potuto sognare a mio agio
con il nostro Onetti ho appreso l‘insolito
e con Quiroga ho conosciuto la tristezza

il buon Cortázar
mi fece il suo complice
da Felisberto ho ritrovato Kafka
e da Kafka la gabbia
che cercava i suoi uccelli

da Paco Urondo l’ottimismo fino in fondo
da Roque Dalton il suo faro indocile
José Emilio Pacheco mi ha dato mondo e il suo fuoco
Juan Gelman l’amore fatto tragedia
Marcel Proust le discolpe della colpa
Neruda il suo campionario di metafore
García Márquez non so più quante cose

sono gli autori che ho piantato nella mia vita
questi ed altri ancora
uva di una vite altrui / sono il mio vino
e quando mi disarmo e li ritrovo
con loro faccio un brindisi in coppa di lettere

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Leggere aiuta a scrivere. Di più: chi vuole scrivere, deve leggere. E ancora più questa affermazione vale per chi vuole scrivere poesia: è solo dalla lettura degli altri poeti, dalla comprensione dei loro versi che può nascere nuova poesia, che si può affinare il proprio stile e indirizzare la propria ricerca. Il poeta uruguayano Mario Benedetti rende omaggio ai suoi maestri: sfilano grandi nomi del Novecento di lingua spagnola e due grandi della letteratura europea, Franz Kafka e Marcel Proust. Sono loro la materia prima, l’uva da cui il poeta distilla il suo vino, gli amici che vuole alla sua tavola mentre scrive.

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LA FRASE DEL GIORNO
A mio parere non ha una piena educazione letteraria chi non conosce i poeti.
LEONARDO BRUNI, De studiis et litteris liber




Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti-Farugia, noto come Mario Benedetti (Paso de los Toros, 14 settembre 1920 – Montevideo, 17 maggio 2009), poeta, saggista, scrittore e drammaturgo uruguaiano. Figlio di immigrati italiani, fece parte della Generazione del’45. Nel 1973 fu costretto all’esilio dal golpe militare. Rientrò nel 1983.



sabato 17 dicembre 2011

Il ritratto di Giovanna Tornabuoni

 

ANTONIO GÓMEZ HUESO

GIOVANNA TORNABUONI

La sua serena bellezza non si può paragonare a nulla,
né lei vuole saperlo nella sua eleganza silenziosa.
Divino profilo di sobria dolcezza
con il nobile pallore della luce corporea.
Uno sguardo che contempla lo scorrere dei secoli
e niente può valere tanta bellezza
se non una posa immobile in sua presenza.
Bella nobildonna fiorentina,
io e te, per quanto sembri impossibile,
siamo,
nella magia di questo istante.

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Che cos’è l’essenza ultima dell’arte? La cancellazione del tempo, il durare oltre il momento, l’estendersi al futuro. Il poeta spagnolo Antonio Gómez Hueso, professore di scuola superiore, prova questa sensazione davanti al Ritratto di Giovanna Tornabuoni, dipinto da Domenico Ghirlandaio nel 1488 e ora appeso in una sala del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, sul Paseo del Prado. Oltre cinque secoli sono trascorsi da quando la nobildonna posò per il ritratto, ma l’eleganza di quel corpetto con motivi floreali, la nobiltà del portamento, la dolcezza un poco malinconica di quella ragazza di vent’anni – sembra presagire il suo destino, la morte di parto in quello stesso anno - sono gli stessi che colse il Ghirlandaio realizzando uno dei più bei ritratti femminili del Quattrocento, a conferma dell’epigramma di Marziale inserito sullo sfondo: “Ars utinam mores animumque effingere posses pulchrior in terris nulla tabella foret” (Arte, volesse il cielo che tu potessi rappresentare il comportamento e l'animo, non ci sarebbe in terra tavola più bella). Antonio Gómez Hueso capisce con poetica intenzione la bellezza dell’istante: in quel momento, in quei pochi secondi in cui ammira la tavola, il tempo non esiste più.

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DOMENICO GHIRLANDAIO, “RITRATTO DI GIOVANNA TORNABUONI”

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LA FRASE DEL GIORNO
L'arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro.
VASILIJ KANDINSKIJ, Punto, linea, superficie




Antonio Gómez Hueso (Torredonjimeno, 2 agosto 1953) è uno scrittore spagnolo. Insegnante di scuola superiore, alla semplicità delle sue prime poesie, con il tempo passa ad un ermetismo surrealista e quindi alle astrazioni e ai giochi linguistici.



venerdì 16 dicembre 2011

Dalla polvere della battaglia


ADNAN AL-SAYEGH

AGAMENNONE

Dalla polvere della battaglia
torna
con il cuore ferito
e due braccia di tamburi e oro.
Sognando le dolci labbra di Clitennestra
che intanto si scioglievano
una notte dopo l’altra,
sulle labbra del suo amante Egisto.

Quando aprì la porta
vide sulle sue labbra viscide
le migliaia di cadaveri lasciati
sul campo di battaglia,
e si accorse di avere dimenticato
di lasciare là il suo corpo.

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Agamennone, il comandante in capo dell’esercito greco nella guerra di Troia, dovette sottostare un po’ come Odisseo alle peripezie cui lo sottoposero gli dei: sacrificò la figlia Ifigenia alla dea Artemide per placarne la furia dopo uno sgarbo da lui compiuto e poter così salpare da Aulide con la sua flotta; litigò con Achille per il possesso di una schiava preda di guerra; dopo eroiche imprese sul campo di battaglia, venne ferito al braccio da Coone nel corpo a corpo con cui l’uccise. E, finita la guerra, sogna solo di tornare a casa e abbracciare la moglie Clitennestra. Questo è il momento che il poeta iracheno Adnan Al-Sayegh coglie nella sua poesia: l’attimo in cui un uomo stanco torna a casa e vede tutti i suoi sogni infrangersi, capisce che la moglie non lo attendeva ma se la spassava con l’amante Egisto. La seconda strofa diventa il negativo della prima: le labbra di Clitennestra da dolci si fanno viscide e tutta la stanchezza del vivere travolge il povero Agamennone, che ora sogna soltanto di essere caduto anch’egli, con onore, sul campo. Invece, secondo il mito, sarà Clitennestra a ucciderlo, sollecitata dal suo amante Egisto.

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PIERRE-NARCISSE GUÉRIN BARON, “CLYTEMNÈSTRE HÉSITANT AVANT DE FRAPPER AGAMEMNON ENDORM”

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LA FRASE DEL GIORNO
Oh tu, prima ansia / Oh tu, patria ultima / Tutto quello che abbiamo / È un paese come i nostri sogni / E un desiderio che annienta.
ADNAN AL-SAYEGH




Adnan al-Sayegh (Al-Kufa, 1955), poeta iracheno. È una delle voci più originali della generazione di poeti iracheni conosciuta come Movimento degli anni Ottanta. La sua poesia, elegante e tagliente, denuncia la devastazione della guerra e gli orrori della dittatura.


giovedì 15 dicembre 2011

Soltanto per amore


ELIZABETH BARRETT BROWNING

SONETTO XIV

Se devi amarmi, per null'altro sia
se non che per amore; non dire mai:
“L'amo per il sorriso, per lo sguardo,
la gentilezza del parlare, il modo

di pensare conforme al mio,
che mi rese sereno un giorno”. Queste
son tutte cose che posson mutare,
Amato, in sé o per te, e un amore

così sorto potrebbe poi morire.
E non amarmi per pietà di lacrime
che bagnino il mio volto. Può scordare

il pianto chi ebbe a lungo il tuo conforto,
e perderti. Soltanto per amore
amami - e sempre, per l'eternità.

(da Sonetti dal portoghese, 1847 - Traduzione di Bruno Dell'Agnese)

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Amare per amore: è l’unico modo possibile. È quello che chiede in una delle poesie più famose della poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning. Amare per amore: in fondo è l’essenza del Romanticismo, e amò per amore Elizabeth, che il 12 settembre 1846, a quarant’anni, sposò il poeta Robert Browning, di sei anni più giovane di lei, nonostante la disapprovazione paterna. Amore disinteressato, che le costò anche la disereda e l’emarginazione dei fratelli: i due poeti si trasferirono allora in Italia, a Firenze, per godere delle bellezze del paese e del suo clima più favorevole per la malattia ai polmoni di lei. Elizabeth morì nella città toscana, a 55 anni. Robert tornò in patria con Pen, il figlio avuto da lei. L’amò “sempre, per l’eternità” fino a quando si spense a Ca’ Rezzonico, a Venezia, nel 1889.

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DISEGNO DI EPOCA VITTORIANA © WOLFWIKIS

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LA FRASE DEL GIORNO
Ti amo fino alla profondità, alla larghezza e all'altezza / Che la mia anima può raggiungere, quando partecipa invisibile / Agli scopi dell'Esistenza e della Grazia ideale.
ELIZABETH BARRETT BROWNING, Sonetti dal portoghese




Elizabeth Barrett Browning (Durham, 6 marzo 1806 – Firenze, 29 giugno 1861),  poetessa inglese, moglie del poeta Robert Browning. La sua poesia migliore è quella che esprime con semplicità d'accenti qualche sentimento elementarmente umano e che influenzò particolarmente Emily Dickinson.


mercoledì 14 dicembre 2011

Una linea retta di luce


DIEGO VALERI

UN VENTO NERO

Un vento nero
ha oscurato, improvviso,
la laguna, rotta, crestata
di livide schiume.
Qui sottocasa l’onda batte forte
come un cuore impazzito.
Ma laggiù, vedi,
dov’essa fa orizzonte,
non è che pace e luce
è una linea retta di luce
che taglia l’infinito.

(da Poesie inedite o “come”, San Marco dei Giustiniani, 1977)

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Una linea retta di luce, la speranza che incomincia a filtrare da un momento cupo, la vita che continua dopo la tempesta. Diego Valeri, buon osservatore della natura, dalla sua casa di Calle del Vento a Venezia, dipinse questo quadretto in versi. L’importante è non disperare, aggrapparsi a quel bagliore, per quanto lieve, come fece anche Mario Luzi in Sulla riva, una delle sue più belle poesie: “I pontili deserti scavalcano le ondate, / anche il lupo di mare si fa cupo. / Che fai? Aggiungo olio alla lucerna, / tengo desta la stanza in cui mi trovo”.

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FOTOGRAFIA © FLICKR

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LA FRASE DEL GIORNO
Le cose non sono mai tanto torbide, che non abbiano alcun attacco di speranza.
GASPARO GOZZI, Lettera al cardinale Scipione Gonzaga




Diego Valeri (Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976), poeta, traduttore e accademico italiano, fu ordinario di Letteratura Francese all’Università di Padova per oltre vent’anni, tranne nel periodo 1943-45 quando riparò in Svizzera come rifugiato politico.


martedì 13 dicembre 2011

Sangue invece che inchiostro


AFFONSO ROMANO DE SANT'ANNA

IL DOPPIO

Sotto la mia scrivania
c’è sempre un cane famelico
- che mi nutre con la tristezza.

Sotto il mio letto
c’è sempre un fantasma vivo
- che spaventa chi mi ama.

Sotto la mia pelle
qualcuno mi guarda strano
- pensando che io sia lui.

Sotto la mia scrittura
c’è sangue invece che inchiostro
- e qualcuno che grida in silenzio.

(da Poesia falada)

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“Tutto in me è filtrato dalla poesia, azione e verbo”: Così rispondeva nel 2005 in un’intervista il poeta brasiliano Affonso Romano de Sant’Anna. Tutto dunque è poesia, ogni azione della vita: il poeta si organizza attraverso il linguaggio, esprimendosi esistenzialmente e storicamente. “Essere poeta è una carriera di lungo corso” scherza Romano de Sant’Anna con l’intervistatore.  Perché la poesia coincide fondamentalmente con la vita, ne è la testimonianza: “La letteratura è questo: il residuo scritto, quando tutto ormai si polverizza. E quello che non è stato scritto pare che non sia esistito”.

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RENÉ MAGRITTE, “DECALCOMANIA”

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LA FRASE DEL GIORNO
Il poeta è una somma / la sua memoria è ciò che aziona / il suo autocomputer.
AFFONSO ROMANO DE SANT’ANNA, Poesia sobre poesia




Affonso Romano de Sant'Anna (Belo Horizonte, 27 marzo 1937 ), scrittore, giornalista e poeta brasiliano. Ha insegnato alle Università di Los Angeles e di El Paso. È stato editorialista di Diario Brasil (1984-1988) e del quotidiano O Globo nel 2005. Attualmente scrive per i giornali Estado de Minas e Correo Brasiliense. 


lunedì 12 dicembre 2011

E gli umani continuano a cantare


SHUNTARŌ TANIKAWA

QUANDO GLI UCCELLI SPARIRONO DAL CIELO

Il giorno in cui le Bestie sparirono dalla Foresta
la Foresta trattenne il respiro.
Il giorno in cui le Bestie sparirono dalla Foresta
gli umani continuarono a costruire strade.

Il giorno in cui i Pesci sparirono dal Mare
il Mare cupamente gemette.
Il giorno in cui i Pesci sparirono dal Mare
gli Umani continuarono a costruire porti.

Il giorno in cui i Bambini sparirono dalla Città
la Città si affaccendò perfino con più operosità.
Il giorno in cui i Bambini sparirono dalla Città
gli Umani continuarono a costruire parchi.

Il giorno in cui l’Umanità perse se stessa
tutti gli umani furono simili uno all’altro.
Il giorno in cui gli Umani smarrirono la Personalità
gli Umani continuarono a confidare nel futuro.

Il giorno in cui gli Uccelli sparirono dal Cielo
il Cielo pianse quietamente
Il giorno in cui gli Uccelli sparirono dal Cielo
gli Umani continuarono, inconsapevoli, a cantare.

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Ritroviamo, a distanza di qualche giorno, il poeta giapponese Shuntarō Tanikawa: se in quella poesia esplorava la tenerezza del bacio, qui invece ci racconta una favola terribile, che poi non è una favola, ma il nostro destino se l’umanità continuerà a distruggere l’ambiente senza preoccuparsi di salvaguardare i beni naturali. È un po’ come nella famosa favola di La Fontaine della formica e della cicala: se non lavoriamo, se non pensiamo seriamente a ridurre l’inquinamento e a ricercare energie alternative, ci ritroveremo a cantare nel deserto. E la preoccupazione di Tanikawa è la stessa di Mauro Corona, che nel suo racconto La fine del mondo storto ne prefigura l’apocalisse con l’esaurimento delle fonti energetiche consumabili: “Solo freddo, fame e mancanza di tutto”.

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FOTOGRAFIA © DAVID ONDRIK

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LA FRASE DEL GIORNO
Credo davvero sia giunto il tempo di percepire la nuova centralità della cultura naturalistica. Una centralità necessaria per conoscerci meglio e, di conseguenza, per calibrare più positivamente il nostro rapporto con la natura, con i nostri simili, con noi stessi.
DANILO MAINARDI, L’animale irrazionale




Shuntarō Tanikawa (Tokyo, 15 dicembre 1931), poeta, scrittore e traduttore giapponese.  Le sue opere sono caratterizzate da una varia gamma di stili. Più volte candidato al Premio Nobel per la Letteratura, ha vinto l'American Book Award nel 1989. È il traduttore dei Peanuts in giapponese.